Anoressia: la maschera di un corpo affamato di confini
Sul piano diagnostico l’anoressia nervosa è caratterizzata da una ricerca estrema della magrezza e da un’opprimente paura di ingrassare. Per porre diagnosi viene usato come criterio la perdita dell’85% del peso rispetto a età, altezza e nelle donne l’amenorrea.
Rifacendoci agli studi di Hilde Bruch, ai lavori sistemici di Selvini Palazzoli e Minuchin possiamo comprendere meglio le dinamiche che sottostanno alla potenziale insorgenza di questo disturbo.
Secondo la Bruch spesso l’anoressia si manifesta nelle cosiddette “brave bambine” che vogliono compiacere i genitori e presentano un modello di dipendenza affettiva.
L’anoressia si profila dunque come un tentativo di sviluppare attraverso il controllo del corpo, un senso di autonomia e di potere nelle relazioni interpersonali.
Le origini evolutive dell’anoressia nervosa secondo la Bruch possono essere rintracciate nella relazione con la madre la quale sembra prendersi cura della figlia in funzione dei propri bisogni. I sistemici, in accordo con la Bruch, hanno descritto uno schema di invischiamento nelle famiglie di persone con anoressia, caratterizzato da assenza di confini generazionali e personali, per cui ciascun membro è ipercoinvolto nella vita di tutti gli altri:
“le persone che sviluppano l’anoressia sono persone che non si sono separate psicologicamente dalla madre, per cui il corpo viene vissuto come se fosse abitato da un cattivo introietto materno e il digiuno sembra essere un tentativo di fermare la crescita di questo oggetto interno ostile e intrusivo. I genitori tendono a proiettare la loro ansia nella figlia, invece di contenerla e la figlia per proteggersi da proiezioni vissute come corpi estranei, sviluppa un sistema di difesa modalità vietato entrare che si concretizza nel rifiuto del cibo”, sottolinea Minuchin.
Le dinamiche relazionali riconoscibili dietro lo sviluppo dell’anoressia da parte di un membro della famiglia hanno a che fare con una grande difficoltà del contesto a comprendere che cosa vuol dire “confine”, che cosa vuol dire tutela del proprio spazio personale, a che cosa serve questa salvaguardia e perché è fondamentale per una vita relazionale adulta sufficientemente sana.
A ben guardare questa difficoltà è spesso visibile anche nella disposizione della casa: non ci sono porte a separare gli spazi di ciascuno o quando ci sono vengono tenute perlopiù aperte, sprovviste di chiavi per essere chiuse a garantire intimità alla persona che voglia stare per conto proprio.
I tentativi di ribellione rispetto a queste regole familiari da parte dei figli che crescono vengono visti come una forte minaccia all’equilibrio dell’intera famiglia e vengono sabotati nella convinzione di proteggere i figli, di salvarli da “questa stranezza di chiudersi in camera”.
Quando i tentativi falliscono sistematicamente e/o conducono a conflitti interni volti a colpevolizzare l’autore del tentativo di mettere confini, la persona che ha avuto il coraggio di ribellarsi per un bisogno personale può reagire buttandosi addosso quell’odio e quella rabbia che non viene accolta dalla famiglia come atto di passaggio e di individuazione necessario alla costruzione di un’identità propria.
La persona può iniziare in tal modo a odiarsi e a sentirsi sbagliata riversando sul proprio corpo questi sentimenti rifiutanti. Rifiuta il proprio peso, le proprie fattezze, non si ritrova più dentro il suo corpo. Il corpo finisce per assumere nel proprio immaginario le sembianze di una prigione.
Vivendo in un contesto che mischia i bisogni di tutti appiattendo in realtà le necessità emotive di ciascuno, questa persona impara che quello che in realtà sente non lo può esprimere così com’è perché verrà travisato o verrà letto solo in funzione di un sostegno all’invischiamento. Così ad esempio una richiesta di separazione come quella di chiudere la porta a chiave per ascoltare la musica potrà essere letta come un pericolo e potrà generare risposte che svalutano e sminuiscono drammaticamente il bisogno emotivo sottostante.
La confusione comunicativa che contribuisce a reggere il sistema invischiato sprovvisto di confini, favorisce altrettanto disorientamento emotivo che svilisce a lungo andare la capacità della persona di stare realmente a contatto con ciò di cui ha bisogno, compreso il senso di fame.
In questo circolo vizioso dannoso la persona stessa diventa abilissima a delegittimare i propri bisogni interni e fisici di riposo, di fame, di sonno, svalutandoli come fa il resto della famiglia più o meno inconsapevolmente. Questa delegittimazione del proprio mondo emotivo conduce la persona a compensare con una rigidità volta a ri-ottenere il controllo su di sé: in questa dinamica che si è instaurata la perdita di peso è considerata una straordinaria conquista, mentre l’aumento di peso viene vissuto come una perdita inaccettabile della propria capacità di controllo.
E’ importante, sulla base di queste premesse, attuare un approccio che abbia come condizione necessaria ma non sufficiente la ripresa graduale di un peso che garantisca le risorse per intraprendere un percorso supportivo-espressivo individuale che si ponga tra gli obiettivi quello di comprendere lo stato emotivo sottostante il rifiuto del cibo di quella specifica persona. Quanto più il lavoro psicoterapeutico ha inizio precocemente, tanto più sarà possibile districare le dinamiche che hanno un ruolo nel mantenimento del disturbo, dipanarle allo scopo di comprendere a cosa stanno conducendo e a cosa stanno servendo sia alla persona anoressica sia agli altri membri della famiglia.
La costruzione dei confini personali come base di una reale separazione e indipendenza, la condivisione emotiva, l’accettazione e l’accoglienza di emozioni vissute come scomode, la rassicurazione sono solo alcuni elementi cardine su cui è possibile intervenire efficacemente per prevenire questo complesso e articolato problema che chiamiamo anoressia.