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Il dolore richiede rispetto


In ogni contesto, in ogni momento, in ogni modo e a qualunque età il dolore richiede rispetto. La possibilità di esprimere il dolore nella propria maniera soggettiva e irrinunciabile è un diritto da proteggere.

Nella società del giudizio, in cui ogni comportamento viene etichettato e qualificato positivamente o negativamente da chi lo osserva, anche esprimere il proprio vissuto di dolore è diventato un atto da giudicare.

Perché accade questo? Che cosa ci spinge a diventare giudici delle ferite altrui? Che cosa ci fa sentire in diritto di guardare il dolore dell’altro e dare una definizione alla modalità attraverso cui lo sta esprimendo?

Ad un vissuto emozionale corrispondono diversi comportamenti, diverse risposte, diverse manifestazioni che rispecchiano il “come” di ogni persona, possiamo cioè immaginarli come delle piccole finestrelle sull’anima di quella persona. Quando le circostanze della vita ci portano ad assistere a un’esperienza di dolore che riguarda un’altra persona, dovremmo sempre avere in mente questa immagine: quella persona, in quel momento, soffrendo ed esprimendo il suo dolore a suo modo, ci sta offrendo il privilegio di guardare da una piccola finestrella un angolino della sua anima ferita.

Proprio perché ogni essere umano è unico l’espressione del dolore è diversa per ogni persona.

C’è chi, vivendo un’esperienza dolorosa, sente il bisogno di piangere, chi sente il bisogno di gridare, chi sente il bisogno di strapparsi i capelli, chi sente il bisogno di pietrificarsi, chi sente il bisogno di ridere o di rimanere in silenzio … e tante altre sfumature personali.

L’esperienza del dolore crea uno stress all’organismo e chiama in causa il nostro sistema nervoso autonomo che è composto dal sistema nervoso simpatico e parasimpatico. Il sistema nervoso simpatico prepara il nostro corpo all’azione e il parasimpatico rilassa il corpo aiutandolo a scaricare l’energia accumulata dopo un evento stressante, qual è un’esperienza dolorosa.

Quando l’esperienza di stress e di dolore è prolungata e molto forte per l’organismo il sistema nervoso può rispondere congelando i processi corporei, rallentandone le funzioni oppure producendo un’attivazione così alta da risultare ingestibile per il nostro organismo.

Senza addentrarci troppo nello specifico nel campo dei traumi, questo breve accenno all’autoregolazione organismica e a come può essere alterata, ci aiuta a comprendere una cosa fondamentale: il corpo come sede di ogni emozione reagisce al dolore in modo diverso e questa diversità umana va rispettata.

Se io non permetto a me stesso di esprimere il dolore seguendo la mia modalità di espressione, probabilmente quando guardo un altro esprimere quell’emozione mi sento in imbarazzo, mi sento fuori posto, a disagio, provo vergogna, forse fastidio.

Giudicare il dolore ha a che fare con la propria intimità. Se mi risulta complicato guardare me stesso piangere, gridare, pietrificarmi, etc. è probabile che a contatto col dolore dell’altro eviterò di mettermi nei suoi panni, perché questo vorrebbe dire immaginare me stesso che sente quello che sente nella condizione dell’altro.

Questa difficoltà crea una barriera tra me e l’altro, quella barriera che ci fa “commentare” il dolore altrui con superficialità, senza sporcarci le mani con le lacrime dell’altro. È più facile affacciarsi da un balcone e dire “ma che esagerazione!” piuttosto che calarsi dentro l’esperienza dell’altro che sente il dolore che sente e lo esprime come in quel momento ha bisogno di fare.

Il rispetto per le emozioni dell’altro passa attraverso il rispetto delle proprie emozioni. E delle proprie espressioni emotive.

Ognuno di noi, bambino o adulto, va nel mondo e porta la propria storia con sé, il suo “romanzo personale”, direbbe Polster.

Tu con la tua storia e io con la mia possiamo incontrarci e condividere pezzi di strada insieme se accettiamo di fare i conti con la nostra intimità, prima di tutto.

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