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Vulnerabilità: l'esperienza di una forza nella fragilità


La parola vulnerabilità deriva dal latino vulnus (ferita) e abilis (possibilità). Se da una parte siamo abituati ad associare al termine vulnerabilità un significato che ha a che vedere con la debolezza, in realtà soffermarci su questo termine apre un altro scenario.

Quando siamo toccati da un disagio, da una situazione che provoca in noi sofferenza la registriamo come una ferita. Quando ci sentiamo feriti può essere difficile restare aperti al mondo: restare in ascolto, restare in contatto, restare in una situazione. La chiusura del contatto con chi ci ha ferito o con il contesto in cui ci siamo sentiti feriti può apparire in un primo momento come una barriera protettiva che faccia da scudo a ulteriori minacce.

D’altra parte però chiudendoci a chiave dentro noi stessi rischiamo di farci dell’altro male: metaforicamente iniziamo a funzionare come una pentola a pressione, trattenendo rabbia, dolore, e frustrazione .

Così facendo affatichiamo non solo la nostra anima ma anche il nostro corpo. Comportarsi in modalità “come se” nulla fosse accaduto ci fa illudere che quelle emozioni prima o poi se ne andranno, ma in realtà andranno a depositarsi in punti specifici del corpo creando danni più o meno incisivi agli organi interessati e al loro funzionamento. Coinvolti in prima linea saranno così il cuore, il fegato, i polmoni, la pelle.

Certamente la società in cui viviamo non ci aiuta a fare esperienza della nostra vulnerabilità, non crea condizioni che facilitino la consapevolezza dei nostri punti di fragilità perché spesso è travisato il senso di questa qualità.

È interessante invece essere consapevoli del fatto che nelle comunità e nei gruppi in cui questa parte di noi è accolta e incoraggiata, le persone sviluppino un senso di appartenenza e di rispetto reciproco molto intenso.

L’appartenenza a una comunità di persone si costruisce dalla connessione tra queste, dalla possibilità di vedere i bisogni degli altri e di partecipare attivamente al loro sostegno.

Cosa c’entra l’appartenenza con la vulnerabilità?

Quando ci permettiamo di incontrare e accogliere la nostra vulnerabilità apriamo una porta nel nostro scudo protettivo e iniziamo a vedere l’altro. A vedere che l’altro è lì, con i suoi bisogni emotivi. Iniziamo cioè a guardare oltre, a sentire non solo il livello contenutistico del discorso dell’altro, ma soprattutto a percepirne il senso emozionale, il messaggio che quella persona sta mandandoci tra le pieghe delle sue parole.

Entrare in contatto con questo connette le persone, fa sì che entrino ad un livello profondo di comunicazione e di intimità.

Fare questa esperienza è ri-scoprire le possibilità che racchiude la nostra vulnerabilità.

Ricordo a questo proposito con affetto le parole di un paziente che accedendo a questa esperienza e al potere che ha portato alla sua vita l’ha decritta come fosse un imbarazzo piacevole, il lato bambino che da tempo non sentiva più vivo, una forza nella fragilità che non credeva di poter sperimentare.

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