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Viaggio verso la tenerezza: imparare a coccolare la propria paura e il proprio dolore


L’emozione della rabbia ha molte sfaccettature. E’ un’emozione complessa e secondaria: quando sentiamo rabbia in un momento precedente abbiamo sentito dolore o paura. La rabbia si poggia su queste due emozioni primarie.

Ascoltare la propria rabbia è allora decisivo per comprendere cosa fare e come stare meglio.

Andando dentro alla nostra rabbia potremmo scoprire se c’è dolore o se c’è paura a sostenerla.

Quando un bambino è addolorato lo consoliamo: comprendiamo che questi sono i suoi bisogni quando prova dolore.

Allo stesso modo quando un bambino prova paura e avverte un pericolo, reale o immaginario che sia, lo rassicuriamo: comprendiamo che ha bisogno di questo sostegno.

Entrare in contatto con la nostra rabbia ci permette di comprendere che cosa sta succedendo dentro di noi, che cosa stiamo toccando internamente:

stiamo evitando di sentire paura?

stiamo evitando di sentire dolore?

cosa ci pesa sull’anima?

quale immagine la rabbia ha riportato in primo piano?, quale ricordo?

quale situazione ha rievocato?, etc.

Vedere la rabbia da questa angolatura ci aiuta ad avere compassione per noi stessi.

Provare compassione vuol dire prendere quel bambino che piange dentro di noi perché ha paura o sente dolore e cullarlo senza dire niente. Diventare più compassionevoli con noi stessi vuol dire coltivare lo stato d’animo della leggerezza, vuol dire diventare meno pesanti nei rapporti con noi stessi e con gli altri.

Imparare a coccolare il proprio dolore è un percorso che mira all’autotenerezza e all’autorassicurazione. È un viaggio che prende le mosse dal rendere consapevole la propria parte giudicante, il proprio giudice interno che punta il dito contro di noi. E’ questo il legame che c’è tra la rabbia e la pesantezza.

Quando il nostro giudice prende il sopravvento ci sembra proprio di essere circondati da nemici: in realtà ci stiamo giudicando e di conseguenza ci sentiamo giudicati dagli altri. Imparare a riconoscere che il giudizio proviene in primo luogo da una parte di noi, ci fa vedere un altro pezzo di mondo, un mondo che è pieno di persone che fanno la loro vita e non sono li per valutare la nostra.

Quante volte ci sarà capitato nella vita di sentirci dire “come sei pesante!?!” sarà capitato più o meno a tutti una volta nella vita e a qualcuno forse anche più volte.

La pesantezza è un effetto della nostra tendenza più o meno intensa ad autocriticarci, ad arrabbiarci sulle cose che non vanno come pensiamo dovrebbero andare, ad arrabbiarci con noi stessi e con gli altri quando il loro modo di fare e di essere esula dallo schema con cui ce li rappresentiamo.

È un effetto della poca tenerezza e del poco amore con cui coccoliamo noi stessi, i nostri dolori e le nostre paure.

Rispetto a questo i feedback che gli altri ci rimandano rispetto al fatto che ci percepiscono pesanti, sono una benedizione da cui partire per iniziare a guardarci dentro onestamente e profondamente.

Prendersi uno spazio dove potersi sedere ed entrare in contatto profondo con sé stessi è il primo passo per entrare dentro quella pesantezza e dialogare con lei, cioè con una parte di sé:

come mai sei qui?

che cosa vuoi da me?

che cosa rappresenti nella mia vita?

che cosa mi stai comunicando?

che cosa vuoi che faccia?

di che cosa hai bisogno?, etc.

Entrando in contatto con noi stessi potremmo dare forma alla pesantezza e immaginare come è fatta. Contatto vuol dire avere il coraggio di guardare che ci succede quando sentiamo pesantezza, avere il coraggio di non mandarla via, di stare un po’ con lei per vedere cosa ha da dirci.

… E scoprire lungo il viaggio dentro noi stessi che abbiamo molte più ragioni per amarci di quanto fossimo consapevoli.

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